Iudex e territorio suo vi expulsus vel a iurisdictione ibi exercenda impeditus, potest extra territorium iurisdictionem suam exercere et sententiam ferre, certiore tamen hac de re facto Episcopo dioecesano.
Il giudice espulso con la violenza dal suo territorio o impedito di esercitare in esso la giurisdizione, può esercitare la sua giurisdizione fuori del territorio ed emanare sentenze, dopo aver tuttavia di ciò informato il Vescovo diocesano.
Ein Richter, der gewaltsam aus seinem Gebiet vertrieben worden oder dort an der Ausübung seiner Gewalt gehindert ist, kann, jedoch nach vorheriger Benachrichtigung des Diözesanbischofs, außerhalb seines Gebietes seine Jurisdiktion ausüben und Urteile fällen.
c. 1637.
Art. 32 § 2 DC
Potestas iudicialis in proprio territorio exercenda est, salvo art. 85.
Il luogo del giudizio nelle attuali circostanze appare soggetto a fenomeni per molti versi nuovi ed inediti, favoriti o più semplicemente causati di volta in volta – complice la originale natura universale della Chiesa – dall’accentuata ed oltremodo facilitata mobilità di persone o comunicazione di atti, dalla scarsità di ministri del tribunale o dal moltiplicarsi di giudizi al di fuori del rodato campo delle nullità matrimoniali. In tal modo può verificarsi che un Metropolita si chieda se possa nominare giudici che abitano fuori dall’arcidiocesi e che non possano recarsi per il giudizio entro i confini dell’arcidiocesi; oppure che vescovo diocesano di un territorio di missione in Africa, originario di una diocesi dell’Europa settentrionale, porti con sé (gli atti di) sei cause di nullità e su cinque riceva il consiglio del tribunale locale, mentre sulla sesta, da giudicare con processo documentale, nomini il vicario giudiziale di quel tribunale «a judge on his tribunal “pro hac vice”», che procede alla decisione giudiziale; oppure che un arcivescovo Metropolita di un Paese europeo alle prese con un processo penale da istituire contro un suo sacerdote, costituisca un tribunale diocesano con giudici nominati da altre diocesi limitrofe e questi si ritrovino a decidere – come scrivono in bella evidenza nella sentenza all’inizio e alla fine – «at St. Mary’s Priory» nel territorio di un’altra arcidiocesi di quel Paese.
Can. 1469 § 1
Il canone 1469 § 1 prevede che il giudice possa esercitare la giurisdizione fuori dal suo territorio qualora sia stato espulso con la forza o sia impedito di esercitare nel suo territorio la giurisdizione. Per via logica necessaria dal prescritto si deduce che incombe sul giudice l’obbligo di esercitare la giurisdizione, ossia la potestà giudiziale, e proferire sentenze o decisioni giudiziali, nel suo territorio. La natura e i limiti di questo obbligo non sono facili da determinare e circoscrivere.
Pare, anzitutto, di poter escludere che si tratti di un prescritto che solamente intenda subordinare l’esercizio della giurisdizione fuori dal territorio all’informazione da dare al riguardo al vescovo diocesano. La clausola finale («certiore tamen hac de re facto Episcopo dioecesano») è solo una prescrizione di liceità e di correttezza istituzionale che non interferisce con il disposto fondamentale del canone.
Depone, inoltre, per questa precisazione anche la chiara separazione esistente tra il prescritto del § 1 (esercizio della giurisdizione e pronuncia di sentenza) e il prescritto del § 2 (raccolta delle prove). Il canone 1469 § 1 concerne solo gli atti o decisioni giudiziali nei quali si esercita in senso proprio la potestà giudiziale e di questi è esemplificativo la sentenza, ossia la decisione giudiziale.
In terzo luogo non pare che possa essere degradata o sminuita la seconda clausola del can. 1469 § 1: «a iurisdictione ibi exercenda impeditus». Sono conosciuti, infatti, tentativi di leggere l’impedimento del giudice ad esercitare la giurisdizione nel suo territorio a partire da fenomeni contingenti e lievi, concernenti condizioni soggettive del giudice stesso, quali l’onerosità del viaggio di un giudice residente fuori dal territorio del tribunale. La connessione con la prima clausola «e territorio vi expulsus», esplicitamente citata e di gravità evidente, non pare discutibile. La giustapposizione delle due clausole (di cui la prima è logicamente contenuta nella seconda) manifesta chiaramente la volontà di fornire all’interprete una chiave di lettura: l’impedimento ad esercitare nel territorio la giurisdizione deve essere ingiusto e grave, simile a quello più grave espresso dalla violenta espulsione del giudice dal suo territorio.
Acquisiti questi elementi basilari di interpretazione, sorge la questione principale: per quale ragione il Legislatore ha inteso nel can. 1469 § 1 esprimere le eccezioni e tralasciare il principio. Non parrebbe questo un buon modo di legiferare. A meno che non esista altrove il principio generale.
Di fatto tale principio generale esisteva nel Codice del 1917 al can. 201 § 2: «Iudicialis potestas tam ordinaria quam delegata exerceri nequit in proprium commodum aut extra territorium, salvis praescriptis can. 401, § 1, 881, § 2 et 1637 [= 1469 § 1 CIC83]». Dal punto di vista materiale e formale, pertanto, quel Codice appariva fornito di una legislazione perfetta: il principio generale nel can. 201 § 2 e l’eccezione nel can. 1637 [= 1469 CIC83], menzionato scrupolosamente nella stessa formulazione del principio generale (cf anche Communicationes 38 [2006] 73).
Su questa base, ma non solo, la dottrina comune, con alcune rare eccezioni, riteneva che la decisione giudiziale presa fuori dal territorio fosse nulla, e di nullità insanabile.
Non altrettanto solida parrebbe la base nel Codice vigente, che omette di riprendere il prescritto del can. 201 § 2 del Codice previgente. Donde il problema interpretativo più acuto, di una individuazione se viga tutt’oggi un prescritto generale sulla territorialità dell(’esercizio dell)a giurisdizione e, eventualmente, quale natura possieda.
La sopravvivenza virtuale del can. 201 § 2 del Codice pio-benedettino nell’ordinamento vigente è suffragata da vari argomenti. Si potrebbe far riferimento alla ragione contingente che ha persuaso dell’opportunità della sua omissione durante i lavori di preparazione del Codice (cf Communicationes 21 [1989] 258-260; 22 [1990] 16-19), oppure alla sua implicita permanenza ed affermazione ex contrario dalla prescrizione del can. 136 del Codice vigente. Un elemento positivo rilevante a favore della continuazione della vigenza del prescritto del can. 201 § 2 CIC17 è costituito dall’art. 32 § 2 dell’istruzione Dignitas connubii: «Potestas iudicialis in proprio territorio exercenda est, salvo art. 85», dal prescritto del can. 6 § 2, nonché dalla costante prassi della Segnatura Apostolica.
La giurisprudenza
La Segnatura Apostolica in una decisione della Plenaria del 5 marzo 1970 si è espressa a favore del valore irritante della legge che richiede che gli atti giudiziali siano compiuti all’interno del territorio.
La Rota Romana– anche se sotto l’impero del Codice piano-benedettino – ebbe ad affrontare ex professo et per extensum la problematica in una causa Bituricen. seu Claromontan., 4 febbraio 1967, in «Ephemerides iuris canonici» 25 (1969) 329-335.
La posizione del decreto coram Ewers è favorevole in diritto alla nullità della sentenza pronunciata fuori dal territorio. La posizione, al di là delle opinioni degli Autori (che sono citate e discusse), è tratta dal «principium fundamentale in jure tum civili tum canonico» secondo il quale «judicem extra territorium suum seu delegantis esse privatam personam». Lo si rileva dal diritto romano (D. I, 18, 3; II, 1, 20), che il diritto canonico ha conservato in modo ancor più rigido («sanctius»), come si rileva dalle decretali: c. 7, X, de officio legati, I, 30 e c. 2, de constitutionibus, I, 2 in VI°.
Diversa è la posizione in iure del decreto rotale coram Czapla, 17 febbraio 1969, in «Ephemerides iuris canonici» 25 (1969) 336-339, che apporta due ragioni. La prima concerne la genericità delle clausole del can. 1637 [= 1469 § 1 CIC83]: se le cause dell’impedimento ad esercitare l’ufficio di giudice nel proprio territorio sono indeterminate (come appare dal testo del canone e dalla dottrina), non si adempie il prescritto del can. 11 [= 10 CIC 83] che – secondo la pronuncia rotale – richiederebbe cause di nullità chiaramente determinate. L’altra ragione, per quale «admitti nequit territorium constituere essentialiter actum potestatis iudiciariae», è tratta dal prescritto del can. 1561 § 2 («Ordinarius autem domicilii vel quasi-domicilii iurisdictionem in subditum, quamvis absentem, habet») nonché dalla normativa sull’incompetenza relativa ratione territorii (cf cann. 1560-1568; cf can. 1407 § 2 CIC83), incompatibile con la visione della potestà di giurisdizione limitata essenzialmente dal territorio.
La dottrina
Alcuni Autori hanno voluto vedere la perfezione (addirittura forse il perfezionamento) del sistema facendo riferimento al prescritto del can. 1620, 2°: «Sententia vitio insanabili nullitatis laborat, si […] lata est ab eo, qui careat potestate iudicandi in tribunali in quo causa definita est».
Il Legislatore avrebbe, quindi, nel can. 1620, 2° prevista la nullità insanabile della sentenza per due fattispecie: una, più grave, si avrebbe quando «manca il giudice quale persona pubblica e causa efficiente della sentenza»; una, meno grave, si avrebbe in tutti i quei casi in cui l’autore della decisione avrebbe una qualifica giudiziale (difensore del vincolo, promotore di giustizia o uditore) ma non la giurisdizione del giudice per giudicare, oppure avrebbe una qualifica di giudice, ma «abilitato per un altro tribunale». Su questa linea non mancano Autori: alcuni si esprimono più esplicitamente (García Faílde; Ramos), altri in modo più sommario (Arroba Conde; Serrano).
Effettivamente la lettera del can. 1620, 2° pare deporre a favore della nullità insanabile per il giudice che giudichi fuori dal territorio.
In conclusione
In conclusione si può affermare che il can. 1469 § 1 trattando un caso particolare (l’eccezione) pone in risalto la regola (generale) che non è esplicita nel Codice, ossia che la potestà giudiziale (e soprattutto la pronuncia di sentenza) non può essere esercitata validamente fuori dal territorio del tribunale.
Montini, G.P., «Claudatur cum indicazione loci» (can. 1612, § 4). Il luogo della decisione giudiziale canonica tra realtà, formalità e motivo di nullità, in “Recte sapere”. Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre, Torino 2014, pp. 499-510.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 73; 99; 41 (2009) 372; 10 (1978) 260-261.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito monsmontini.it ove prossimamente saranno pubblicate le dispense aggiornate della parte statica del Corso di diritto processuale tenuto nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.