§ 2. Tenentur etiam semper ad secretum servandum de discussione quae inter iudices in tribunali collegiali ante ferendam sententiam habetur, tum etiam de variis suffragiis et opinionibus ibidem prolatis, firmo praescripto can. 1609, § 4.
§ 2. Sono anche sempre tenuti a mantenere il segreto sulla discussione che si ha tra i giudici nel tribunale collegiale prima di dare la sentenza, e anche sui vari suffragi e sulle opinioni ivi pronunciate, fermo restando il disposto del can. 1609, § 4.
§ 2. Sie sind immer auch zur Geheimhaltung verpflichtet bezüglich der Erörterung, die zwischen den Richtern eines Kollegialgerichtes vor der Urteilsfällung stattfindet, und auch bezüglich der verschiedenen Stimmabgaben und der dabei vertretenen Auffassungen unter Wahrung der Vorschrift des can. 1609, § 4.
c. 1623 § 2; PrM 203 § 2.
Riguarda il segreto processuale, volto principalmente a proteggere il processo, il segreto prescritto nel § 2. Esso, infatti, è tutto teso a difendere la libertà del giudice nell’atto del giudicare nella sessione di voto. La libertà di giudizio (ex scientia et conscientia: cf can. 1608) è il nucleo essenziale della funzione giudiziale che, nel momento fosse esposta a ricatti, recriminazioni, vendette, verrebbe meno.
La normativa esecutiva (cf art. 248 § 7 DC) nonché normative particolari e peculiari (cf NRR 89 § 3) tutelano questo segreto anche attraverso la conservazione protetta dei voti e dei verbali della sessione di voto.
Il segreto (come diritto e come obbligo) si estende anche al testo della sentenza, nella quale è riprovato rivelare che la decisione è stata «unanime»: in questo modo si tradisce il segreto sui voti. Né si può obiettare che il giudice è libero di rivelare il suo parere (votum): anzitutto la rivelazione del proprio voto può comportare la rivelazione dei voti degli altri membri del collegio; inoltre la rivelazione del proprio votum può diventare per lo stesso giudice una restrizione della sua libertà a fronte di variazioni sia di suoi giudizi sia di giudizi dell’autorità ecclesiastica. La stessa riprovazione della rivelazione dell’unanimità del collegio si applica anche alle decisioni processuali incidentali e ordinatorie, anche riferite in sentenza.
Eccezione
La proposta di porre nel testo del canone la menzione che, a norma del can. 1609 § 4, il giudice, il cui parere è in minoranza nel collegio, ha il diritto che il suo voto sia trasmesso al tribunale di appello, casomai ci sia un appello, aveva come scopo che non ci fosse «contradictio inter secretum officii […] et facultas illis concessa in can. [1609], § 4» (Communicationes 16 [1984] 60). La Commissione accolse la proposta introducendo la clausola finale: «firmo praescripto…».
La clausola è bene apposta, almeno per il suo carattere dichiarativo o esplicativo, di ciò che era già sufficientemente chiaro dall’interpretazione dei due prescritti.
Può comunque la clausola fungere da avvertenza che l’eccezione del can. 1609 § 4 è di stretta interpretazione, ossia che la sua realizzazione dovrà contravvenire quanto meno possibile all’obbligo generale del segreto. Circa questa lettura restrittiva cf commento al can. 1609 § 4.
Gordon, I., Nota. Responsio nonnullis quaestionibus de interpretatione quorundam canonum libri VII C.I.C., in «Periodica de re canonica morali liturgica» 75 (1986) 639-645.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 69; 95; 41 (2009) 368; 10 (1978) 254; 16 (1984) 60.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito monsmontini.it ove prossimamente saranno pubblicate le dispense aggiornate della parte statica del Corso di diritto processuale tenuto nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.